Geniali italiani dimenticati

Alessandro Melazzini
5 min readJun 18, 2021

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Se osserviamo la vita con occhio critico, non ci stupiremo di scoprirci immersi nei paradossi. Hanno quindi un senso e una causa, sebbene perversi, il fatto che un paese ricco di risorse naturali come l’Argentina versi proprio in questi mesi in una nuova drammatica crisi. O che il lento declino della proprietà privata sia portato avanti dal capitalismo più moderno, quello tecnologico di condivione di beni e servizi.

Non ci stupirà più di tanto allora sapere che la storia italiana, nazione poco incline a coltivare la propria memoria, è un cimitero di inventori geniali eppure sconosciuti, incompresi, dimenticati.

E proprio al genio italico sconosciuto Massimo Sideri dedica il suo divertente libro La sindrome di Eustachio: Storia italiana delle scoperte dimenticate.

Scopo dell’autore e giornalista del Corriere della Sera è di condurci alla guida dei tanti Archimede italici che, per colpa, dolo o sfortuna, sono ingiustamente finiti nel dimenticatoio mondiale, e nonostante siano stati autori di scoperte o invenzioni divenuti patrimonio dell’intera umanità.

Scopriamo allora che gli occhiali, il pianoforte, la matita, la carta telefonica prepagata, l’aliscafo, l’opera lirica, le banche, il robot, e chi più ne ha più ne metta, sono tutti nati da menti italiane.

«Schiacciati come siamo dalla propaganda da Silicon Valley che confonde consapevolmente innovazione con successo commerciale ce ne siamo dimenticati, o forse non l’abbiamo mai saputo», constata tra il mesto e lo stranito Sideri, il cui curioso e meritevole viaggio inizia con quel Bartolomeo Eustachi a cui è dedicato il titolo del volume.

Chi era costui? Un anatomista marchigiano nato nei primi anni del Cinquecento, che all’università di Padova, a forza di dissezionare cadaveri, scoprì quel condotto che collega l’orecchio medio alla faringe e che porta il suo nome. Quello di Bartolomeo è solo uno dei molti casi, «non il primo e non l’ultimo, di un lungo Spoon River di innovatori dimenticati dalla propria stessa patria, dai libri in cui si studia, dai media che dovrebbero contribuire a formare e, infine, dal nostro orgoglio».

Altro eclatante esempio: quello del pianoforte. Tutti conoscono Mozart, Bach, Chopin, Beethoven e i grandi compositori che si sono avvalsi, con risultati vari ma tutti eccellenti, di questo raffinato strumento. Molti meno tuttavia ne conoscono la storia, una storia tutta italiana. Il suo inventore si chiamava Cristoferi, e nacque a Padova il 4 maggio del 1655. La fama di valido strumentista del padovano gli permise di entrare alla corte di Fernando de’ Medici, principe e clavicenbalista. Cristoferi, partendo dall’osservazione di questo strumento del XV secolo, il cui suono è generato dal pizzichio di corde, creò un nuovo generatore di suoni le cui corde venivano colpite da martelletti: «una nuova inventione», come si legge nell’inventario mediceo degli strumenti del 17000, «che fa il piano e il forte».

Solo molto più tardi il tedesco Johann Gottfried Silbermann aggiunse allo strumento di Cristoferi i pedali, e chissà perché, il suo conterraneo Johann Heinrich Zedler, autore di un Lessico Universale, nel parlare del pianoforte si dimenticò di menzionare l’autore primigenio, contribuendo a gettare Cristoferi nel dimenticatoio e germanizzando così totalmente la sua invenzione.

Tra idee folgoranti e nomi sconosciuti nell’antologia di Sideri il più celebre tra i dimenticati, se così si può dire, è senza dubbio Antonio Meucci.

Questi emigrò in America nella seconda metà dell’Ottocento, ma già quando si trovava a Cuba, dove si era recato per aiutare una compagnia teatrale, lavorava a un dispositivo dal bizzarro nome di “telettrofono”. Stabilitosi a New York continuò a ingegnarsi su quell’aggeggio, spinto soprattutto da motivi pragmatici: sua moglie Ester soffriva di una grave forma di artrite e non poteva andare a trovarlo nello scantinato dove aveva sistemato il suo laboratorio. Con il “telettrofono” Meucci risolse il problema di comunicare con la donna — immaginiamo per sapere quando la pasta era pronta — e, en passant, gettò le basi per una rivoluzione mondiale delle comunicazioni.

Peccato tuttavia che chi ebbe l’acume di capire l’importanza di un tale marchingegno non fu il suo inventore, bensì il più scaltro Bell, che infatti brevettò l’idea, assumendosene la paternità e, così facendo, sottoscrivendo ricchi contratti con la Wester Union, società del telegrafo, che tra il conterraneo e l’immigrato italiano non ebbe dubbi su chi favorire. Meucci morì povero nel 1889 e ci vollero più di cent’anni prima che gli statunitensi correggessero pubblicamente il torto, e questo avvenne solo nei primi anni del nuovo millennio grazie all’iniziativa del deputato italoamericano Vito Fossella.

La vicenda è doppiamente beffarda perché anche la paternità della legislazione per la protezione del diritto d’autore è da attribuire all’Italia.

«Immergersi nella storia dell’innovazione italiana, o storia italiana dell’innovazione», osserva Sideri «è come calarsi in una miniera d’oro. Ogni filone ne contiene altri inesplorati, ogni angolo buio si rivela essere un nuovo percorso da seguire. In questo Venezia, la nostra Silicon Valley ante litteram, si mostra inesauribile». Presso la Serenissima infatti vennero inventati due pilastri dell’innovazione: sia brevetto che il copyright. Veneziana è infatti la prima legislazione europea sul brevetto, contenuta in un documento del senato veneziano datato 19 marzo 1474. Il documento era volto a difendere la paternità dell’opera dando al soggetto che la dimostrava il diritto di riprodurre l’invenzione in esclusiva. Ora come allora — e questo la Serenissima ben lo aveva presente — difendere la tecnologia significava difendere la propria prosperità e le proprie ambizioni di grandezza. Il documento venne votato con centodiciannove voti a favore e solo dieci contrari e difendeva quello che oggi noi chiamiamo “copyright”, perché vietava contraffazioni e la commercializzazione di copie non autorizzate. Italiana, e non quindi inglese, anche l’invenzione del diritto d’autore, su cui gli anglosassoni al massimo possono vantare… il copyright del termine “copyright”.

Vista la lungimiranza della Serenissima è un grande peccato che l’Italia del 2018 non mostri di credere molto nella difesa della proprietà intellettuale e industriale. Gli imprenditori nostrani infatti la considerano un passaggio troppo costoso, e non obbligatorio, in questo ripercorrendo inconsapevoli la storia di Meucci, geniale ma poco accorto nell’uso e nella commercializzazione della propria fervidità intellettuale.

A dire il vero non tutte le invenzioni italiane dimenticate sono motivo d’orgoglio, ma tant’è. Sideri infatti ci ricorda che tutta italiana è anche la paternità dello schema truffaldino più noto al mondo, quello che ha permesso a Bernard Madoff di arricchirsi a dismisura truffando i propri clienti prima di finire incarcerato a vita. Parliamo dello “Schema Ponzi”, che deve la sua paternità originariamente a Luigi Zarossi.

Si tratta di una catena di Sant Antonio che promette guadagni garantiti ben al di sopra della normale rendita di mercato, finanziandosi con i versamenti dei truffati. Zarossi lo applicò con gli italiani emigrati in Canada all’inizio del Novecento, promettendo di pagare giganteschi interessi a tutti coloro che avessero sottoscritto il suo favoloso schema. La cosa funzionò fino a che il capitale accumulato da Zarossi non venne dilapidato scoprendo in un botto che il tutto si reggeva su un castello di carta. Zarossi fu costretto a scappare in Messico, ma fece in tempo a insegnare il suo trucco a un altro emigrato, il romagnolo Carlo Ponzi. Questi — era destino — apprese e subito gli rubò l’idea, la raffinò e la adottò applicandola ai suo compatrioti emigrati in America. Nacque così “ufficialmente” lo schema truffaldino universalmente conosciuto come “Schema Ponzi”. Inventato dallo statunitense Charles Ponzi, secondo gli americani, ai quali, lasciamo per una volta volentieri credere di possedere la paternità di una invenzione in realtà completamente Made in Italy.

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