Il successo dell’equilibrio
Quale è il segreto del successo?
Se davvero vi fosse una risposta univoca a una simile domanda probabilmente nessuno ci scriverebbe un libro sopra, ma si adopererebbe per applicare la formula magica alla propria creatività e vivere di rendita.
Purtroppo il mondo non è così lineare e quindi ben vengano gli studi che si arrovellano sul tentativo di dare una risposta a uno dei quesiti centrali della moderna società di massa.
Perché certe opere artistiche, canzoni, libri, film e altro — apparentemente non così diversi dalla concorrenza — talvolta prendono un abbrivio tale da diventare conosciute e amate a livello planetario?
È questo il tema centrale di Creare successi. La scienza della popolarità nell’era delle distrazioni dell’autore e blogger statunitense Derek Thompson.
Per capirlo Thompson suggerisce di concentrarci su una delle canzoni più note in assoluto: la “Ninna nanna” di Johannes Brahms, una composizione che noi tutti, ma proprio tutti, avremo sentito decine di volte nella nostra vita, quantomeno da piccoli.
La “Ninna nanna”, scritta per un il figlio di un amico e pubblicata nel 1868, divenne nel corso dei decenni dopo la sua composizione un successo planetario ed è tuttora uno dei brani più ascoltate nell’emisfero occidentale.
Esso presenta una melodia semplice, orecchiabile e ripetitiva, caratteristiche significative per incamminarsi verso il successo, ma non sufficienti. A questo va aggiunta l’importanza dell’emigrazione di massa delle popolazioni di lingua tedesca nel Nuovo Mondo che, ai tempi in cui Internet non esisteva e la comunicazione aveva dinamiche assai più lente di oggi, agendo come un battistrada contribuì anche oltreoceano a generare un pubblico sensibile e ricettivo per le composizioni del musicista di Amburgo.
Ma la caratteristica centrale per la fortunata ascesa a melodia universale della “Ninna nanna”, secondo l’autore dello studio, è soprattutto la natura duale della creazione di Brahms.
Il compositore tedesco nel generarla attinse a piene mani dalle musiche della tradizione popolare germanica e, nel contempo, riuscì a infonderle quell’originalità propria della vera creazione artistica. Grazie a questo particolare connubio diede così vita a un’opera d’arte nuova e nel contempo poggiata su un impianto conosciuto, riuscendo così nell’intento di sorprendere l’ascoltatore, senza spaventarlo e di rassicurarlo senza annoiarlo.
Questa, in estrema sintesi, la chiave di ogni successo artistico moderno: un sapiente e per certi versi fortuito mix tra antico e moderno, tra conosciuto e innovativo, tra sorpresa e rassicurazione.
Secondo Thompson «la Ninna nanna di Brahms non fu un successo istantaneo perché era incomparabilmente originale, quanto perché offriva una melodia famigliare in un contesto originale». Riuscendo in quello che certi psicologici definiscono come la creazione di un momento di sorpresa estetica.
Per chi lo voglia leggere intero, il volume di Derek Thompson riserva pagine interessanti alla questione filosofica su quanto sia possibile stabilire un canone generale di bellezza comune, ricavando quindi dai suoi dettami le linee guida capaci di far comprendere se un’opera artistica si avvicina alla perfezione o meno, e quali siano quindi le sue probabilità di successo.
Tuttavia nell’ambito di questo articolo risparmiamo volentieri al lettore tali elucubrazioni per concentrarci su quella che per l’autore è — letteralmente — la formula in grado di portare al successo.
Parliamo di MAYA, un acrostico inglese per “Most Advanced Yet Acceptable”, concetto che potremmo tradurre con “il più avanzato possibile pur rimanendo accettabile”.
MAYA è una formula impiegata da a un geniale designer industriale, Raymond Loewy, che con essa sintetizzò il modus operandi e la linea guida di tutta la sua stellare produzione.
Se infatti a un pubblico di non esperti il nome di Loewy suoni esotico, molto meno sono le sue creazioni che hanno concretamente plasmato l’immaginario del Novecento americano. E con esso, quindi, buona parte dell’immaginario popolare occidentale.
Suoi sono infatti gli iconici pacchetti delle sigarette Lucky Strike, sue le locomotive arrotondate Streamliner che hanno segnato il paesaggio urbano e cinematografico statunitensi, sue le favolose Cadillac, capaci di far sognare generazioni intere di automobilisti in ogni dove. Suo anche il logo dell’Air Force One, commissionatogli direttamente da Kennedy, che suggerì al designer di sostituire il colore rosso con quel blu tuttora campeggiante sugli aeromobili presidenziali.
La carriera di Loewy iniziò nel 1919 sul transatlantico che portava il venticinquenne orfano francese nel nuovo mondo. Come in una favola, lo schizzo in cui aveva ritratto una passeggera, venduto all’asta durante la traversata, finì nelle mani di un editore del calibro di Condé Nast che gli aprì le porte delle sue celebri riviste.
Il giovane trascorse gli anni Venti illustrando pubblicazioni, ma solo a fine decennio riuscì a dedicarsi alla sua vera passione, il design industriale, una occupazione che lo portò a diventare negli anni Cinquanta del secolo scorso quello che in questi anni è considerato Jonathan Ive della Apple: un geniale creatore, capace di entrare pervasivamente nella nostra quotidianità tecnologica.
Certo sarebbe semplicistico pensare che tutto questo si debba alla formuletta del MAYA, ma Loewy non si stancava mai di affermare l’importanza di tale intuizione psicologica: «il consumatore nelle sue scelte stilistiche è influenzato da due fattori opposti: (a) l’attrazione per il nuovo e (b) la resistenza a quanto non gli è famigliare» scrisse una volta.
«Quando la resistenza a ciò che non è famigliare raggiunge la soglia critica e oltrepassarla significherebbe una resistenza all’acquisto, su questo confine abbiamo raggiunto la fase MAYA». Una ragionamento apparentemente semplice, eppure di difficile attuazione. Perché conoscerla in teoria non aiuterà molto quell’artista che si arrovella cercando il successo e finisce spesso a scontrarsi con il muro della concreta realtà.
Anche il miglior equilibrio tra nuovo e moderno conta poco infatti, quando non entrano in gioco gli altri due altri fattori sostanziali, senza i quali sfondare è pressoché impossibile. Il talento — o quantomeno quello che viene percepito come tale — e il caso favorevole. Due ingredienti sostanzialmente indipendenti dalla volontà umana, senza cui non vi è formula magica che tenga.
Se tuttavia lasciamo da parte questi aspetti incommensurabili e rivolgiamo di nuovo lo sguardo alla Apple, capiremo ancor meglio la potenza dell’acrostico “equilibrista” di Loewy.
Lo scorso marzo Tim Cook, il presidente dell’azienda, in un evento trasmesso via Internet per presentare una serie di nuovi servizi della casa di Cupertino ha affermato che Apple è sempre stata attenta alle esigenze del cliente, che è sempre stato al centro del suo operato.
In realtà Tim — forse per scimmiottare l’ossessione per il cliente celebre presso Amazon — ha detto una bugia, perché tutti sanno, e lui per primo, che il fondatore Steve Jobs aveva dei suoi clienti un’ opinione piuttosto bassa.
Il creatore della Apple soleva infatti affermare che lui non immaginava mai qui prodotti espressamente richiesti dai suoi potenziali clienti perché, se avesse seguito i loro desideri sostanzialmente banali, non avrebbe mai veramente innovato.
Piuttosto la genialità di Steve Jobs fu quella di sorprendere sempre il suo pubblico con marchingegni dalle abilità quasi magiche, tuttavia confezionati con una attenzione maniacale al design, di modo che la loro carica innovativa andasse sempre pari passo con la loro facilità e immediatezza d’uso.
Più o meno consapevolmente, anche Steve Jobs quindi adottava la formula di Raymond Loewy. Un altro motivo per ritenerla quantomeno degna di attenzione.
Se ancora non ne fossimo convinti, proviamo a riflettere sulla nostra lista di preferenze musicali. Difficilmente le canzoni che più ci piacciono risultano essere quanto di più scontato ci sia. Ma altrettanto difficilmente — quantomeno se siamo onesti con noi stessi, e non bariamo per sentirci più raffinati di quel che siamo — scopriremo di avere delle preferenze per la musica altamente sperimentale.
Molto più probabilmente riscontreremo che i nostri gusti sono assai più mediani di quanto ci piacerebbe credere, e le canzoni da noi più ascoltate facilmente piacciano a moltissimi altri indivisualisti di massa.