In Bitcoin we trust — fede e criptovalute

Alessandro Melazzini
4 min readDec 5, 2022

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Willem de Poorter — The Parable of The Talents or Minas

Il rapporto tra religione e moneta è antico almeno quanto la Bibbia.

Se la fede in un creatore ultraterreno viene pervertita nell’adorazione di un vitello d’oro, allora vi è una prevalenza della materialità sui veri valori dello spirito.

Nel nuovo Testamento, Gesù tiene a separare quello che è di Cesare da quello che è del Regno dei Cieli, dimostrando di saper attribuire valore a entrambi, pur nei differenti ambiti di giudizio.

E sebbene scacci i mercanti dal tempio, sa anche apprezzare quel giovane in grado di mettere a buon frutto i propri talenti, nel senso letterario di moneta, così da moltiplicarli con vero spirito imprenditoriale, come nella celebre parabola.

In ultima analisi, però, per il Cristianesimo la moneta rimane il motivo per cui Giuda ha tradito Gesù, e per secoli l’attività di prestito del denaro venne relegata a commercianti di fede ebraica, contribuendo a diffondere in ambito cristiano un pregiudizio antisemita di matrice economica.

E tuttavia fino a Porta Pia il Vaticano mai negò che il Regno dei Cieli dovesse avere sulla terra una concreta rappresentanza materiale, espressa in uno Stato fornito di esattori e accumulatore di ricchezze e tesori.

Il protestantesimo, poi, se nacque proprio come un rigetto della pratica papale di battere cassa con la scusa di pulire le coscienze dei fedeli, tra le variazioni del credo cristiano è forse quella che più stabilisce una diretta connessione tra ricchezza e fede. Ce lo ha insegnato la lezione magistrale di un sociologo come Max Weber, secondo cui ogni dimostrazione di ricchezza è, per il vero credente, soprattutto una tangibile prova della propria salvezza ultraterrena.

Ancora oggi, la narrativa impressa alla Chiesa da Bergoglio, il Papa francescano, fa storcere il naso a chi, nel clero e fuori da esso, mal tollera dal rappresentante di Dio in terra una così manifesta dimostrazione di umiltà e di povertà, che i critici considerano una pericolosa deriva nel pauperismo.

Anche da questi pochi esempi, è evidente quanto religione e ricchezza (o mancanza della stessa) siano interconnesse in un rapporto non sempre lineare, ma costante. A ricordarlo peraltro basta la frase impressa sulle banconote da un dollaro: “in God we trust” (Crediamo in Dio).

D’altronde, la Fede stessa, la certezza in qualcosa di superiore, in un valore a cui votarsi, per molti credenti è la ricchezza più importante che si possa possedere, e poveri sono coloro che ne sono privi.

E tuttavia la fede è un concetto così ampio che può essere usato anche in molti altri campi dello scibile umano. Perché spesso avere fede — in un Dio, in una squadra, in una missione — è il motore vitale tramite il quale procediamo nelle avversità della vita, le tolleriamo, le affrontiamo, magari le superiamo, guidati da una forza che ben poco ha di materiale.

In un primo tempo, quindi, anche se può sembrare bizzarro parlare di “fede” in ambito di criptovalute, è un fatto che anche questo universo nascente sia mosso da una credenza ben lungi dall’essere scientifica.

Non mi riferisco infatti alla sicurezza crittografica della blockchain, il database decentralizzato su cui si fonda la narrativa del Bitcoin, che per come è concepito assicura matematica certezza circa l’immutabilità e l’irreversibilità delle transazioni, a prova di qualsiasi tentativo di contraffazione.

Il fatto che i movimenti su blockchain non abbiano bisogno di nessun intermediario per essere considerati valide, bensì tutto si poggi su una rete decentrale di attori che comunicano tramite crittografia, è una invenzione epocale per il quale mi auguro che Satoshi Nakamoto riceva in contumacia il premio Nobel per l’economia.

Quando parlo di “fede” in ambito di criptovalute mi riferisco al fatto che anche un costrutto intellettuale e matematico poderoso come quello della Blockchain ha bisogno di fede per crescere e imporsi.

La fede dei suoi utilizzatori: una manciata di cryptopunk dieci anni fa, ora sempre di più, seppur considerati ancora una nicchia. La fede di coloro che “credono” nella avventura messa in moto dal misterioso (o dai misteriosi) Satoshi Nakamoto, ovvero la speranza del successo planetario di una moneta globale decentralizzata.

Se Bitcoin si imporrà come valuta corrente a livello globale, questo in ultima analisi non avverrà per la sua eccellente concezione matematica, non così oscura come possa sembrare, ma in effetti bisognosa di un certo studio per divenire comprensibile.

Al contrario, il successo di Bitcoin in particolare, e forse qualche altra criptovaluta come Eth, si verificherà perché sempre più persone — esperte e non — avvertono come il votarsi alle criptovalute sia parte di una missione più grande, per la quale — al momento — valga la pena correre rischi monetari non da poco, ed essere considerati con sospetto da chi si rifiuta di capire la posta in gioco. Credere nel successo di Bitcoin, nonostante tutte le critiche, se non addirittura gli insulti, elargiti da chi è avverso all’idea di una moneta decentrale, al momento richiede un atto di fede.

E tuttavia sono convinto che questi “folli”, carichi di una fede in qualcosa di immateriale percepito tuttavia come estremamente reale, raggiungeranno una massa critica tale da introdurre un cambio epocale di paradigma monetario. E più insisteranno nel credere che la loro vittoria sarà stata conquistata grazie alla purezza matematica della loro moneta, più sarà evidente che senza un elemento di pazzia, o quantomeno di grande fede, nessuno sarebbe riuscito a far diventare lo scandaloso sassolino concettuale sviluppato da uno sconosciuto, una delle più grandi rivoluzioni finanziarie della storia dell’umanità.

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Alessandro Melazzini
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