Le maledette élite liberali di Carlo Strenger
Carlo Strenger, pubblicista e psicoanalitico nato a Basilea nel 1958 e operante a Tel Aviv, nei suoi libri e articoli si è occupato soprattutto delle questioni sollevate dalla globalizzazione e dalle divisioni sociali da essa causate. Cresciuto in una famiglia ebreo-ortodossa, si è poi allontanato dalle tradizioni familiari per avvicinarsi a posizioni secolari e laiche. Dopo aver studiato a Zurigo e a Gerusalemme ha insegnato a Tel Aviv e a New York.
Il suo percorso di vita e lavoro rispecchia insomma pienamente quello dei protagonisti del suo ultimo libro, uscito a maggio in Germania per la casa editrice Suhrkamp: Queste maledette elite liberali: chi sono e perché ne abbiamo bisogno (Diese verdammten liberalen Eliten: Wer sie sind und warum wir sie brauchen). Un libro affascinante, che unisce riflessione politica a esperienza psicoanalitica e confessione personale.
Il punto d’inizio del pensiero di Strenger è la preoccupante considerazione che le democrazie occidentali si trovino nella crisi più profonda dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
E questa volta il nemico non fa parte di un blocco contrastante, come ai tempi della Guerra Fredda, bensì vive e si agita in mezzo alla nostra società.
Parliamo del populismo, una visione manichea della complessità sociale che contrappone “noi” a “loro”, si fa beffa dei fatti, non conosce argomentare civile e ormai governa in molti paesi cercando di implementare in essi una “democrazia illiberale”, secondo la beffarda formula dell’ungherese Víctor Urbán, uno dei politici europei più scaltri nell’aver saputo catalizzare gli umori del pubblico contro le elite e a suo favore. Quantomeno prima dell’elezione di Donald Trump al comando della più potente nazione della Terra.
Di fronte a questa tempesta autoritaria il pensiero democratico e liberale sembra aver perduto l’orientamento, proprio come accade ai pazienti di Carlo Strenger, della cui casistica egli ci fa parte al fine di delineare innanzi tutto chi sono gli appartenenti delle elite liberali così tanto invise ai politici populisti.
Si tratta di una classe sociale composta da accademici, artisti, giornalisti che spesso nel proprio percorso biografico hanno in comune la fuga dalle piccole cittadine di appartenenza per convergere nei grandi centri urbani del mondo occidentale dove pulsa la vita moderna.
I membri di questa classe sociale sentono di appartenere a una rete di individui simili che non si identifica tanto nelle condizioni di nascita, quanto nell’amore comune verso lo studio e la ricerca personali, nella competitività sul lavoro, nello scetticismo verso lo status quo. Studiosi e lavoratori che si trovano a proprio agio in un contesto poliglotta, che presentano poca affezione per le proprie radici famigliari e nazionali, per abitudine sviluppano il pensiero critico nei confronti della religione e delle tradizioni acquisite in gioventù.
Lo scherno dei politici e la diffidenza dei loro elettori verso questa classe sociale — che ben lungi dall’essere elitaria secondo Strenger è ormai composta dal 30% della società occidentale — non è nuovo. Già il Romanticismo Tedesco di Schiller e Novalis secondo Strenger è improntato a una esaltazione della propria Patria — spirituale o geografica — che si mescola a una diffidenza verso l’altro, spesso visto come un mercante dello spirito incapace di toccare le corde dell’animo di un popolo mitizzato come compatto e unito sotto valori millenari. Critiche che il Novecento tedesco riprende con Thomas Mann e la sua celebre distinzione tra i valori eterni della Kultur germanica contro i biechi mercanteggiamenti portati avanti dalla Zivilisation appiattente delle democrazie francesi e inglesi. Un pensiero sostanzialmente illiberale, quello inizialmente diffuso anche da Thomas Mann a mo’ di apprendista stregone, del quale poi egli stesso ebbe modo di ravvedersi ancor prima che i nazisti lo scacciassero bruscamente dalla sua bella casa di Monaco di Baviera, costringendolo all’esilio in terra americana.
Eppure, questa la tesi di Carlo Strenger, nella loro incapacità di vedere il buono delle tradizioni e dei costumi locali, del capire quanto l’uomo comune abbia bisogno di un radicamento nella tradizione, negli usi e nei costumi che da secoli contribuiscono a costituire l’identità sociale dei molti che non hanno voluto o potuto emanciparsi dal proprio villaggio natale, gli appartenenti alle elite liberali hanno sviluppato uno sterile e pericoloso senso di superiorità che, unito alla loro predisposizione all’ipercompetitività sociale, ha contribuito nel contempo a rendere gli intellettuali, gli accademici, i giornalisti e gli economisti appartenenti a questa classe sociale internazionale invisi alla massa — facile preda dei pifferai della politica — ma anche a spingerli a cacciarsi spesso in situazioni personali insoddisfacenti che da una parte minano la propria considerazione di sé e dall’altra spingono alla solitudine e alla depressione.
Chi infatti considera casa propria il mondo, secondo la sensibilità psicanalitica di Strenger, è inevitabilmente portato a paragonare i propri risultati su una scala planetaria, confrontandosi su un piano globale che molto facilmente porta a sminuire i propri meriti acquisiti, quei meriti di cui inizialmente si è così orgogliosi, perché ottenuti con la propria intelligenza e capacità, secondo il credo meritocratico che costituisce il faro di ogni progressista.
Strenger nota che spesso un’inclinazione liberale e rispettosa dell’individualità personale si associa a un carattere personale ben poco “socievole”, se non addirittura a un’arroganza verso chi è percepito come meno urbano di sé. Antipatia facilmente corrisposta da coloro che si sentono ingiustamente sbeffeggiati nelle proprio ansie.
Globalizzazione, migrazione, automazione del lavoro sono infatti tendenze moderne difficilmente reversibili, ma l’ascesa dell’onda populista non è stata permessa solo da quei leader che offrono soluzioni semplici a problemi complessi, bensì indirettamente è stata causata anche dai molti intellettuali, generalmente di sinistra, che per troppi anni hanno parlato a un popolo fatto di persone idealizzate, ben distanti dagli elettori reali. Non è possibile insomma che nel 2019 ancora non si capisca che il messaggio politico non può venire percepito come calato dall’alto, e che esso deve essere formulato tenendo conto che gli uomini non sono un essere astratto e razionale come alcuni benpensanti ancora si ostinano a credere. D’altronde già Platone questo l’aveva capito, e nei suoi testi aveva fatto largo uso del mito, oltre che della razionalità, sapendo che il lettore si cattura anche con le storie, e non solo con la logica e la razionalità.
Per riconquistare la mente del popolo a cui si dice di parlare, insomma, è necessario togliersi l’abito dell’intelligente tecnocrate senz’anima e imparare a passare per il cuore dei propri ascoltatori, prendendo davvero sul serio le loro paure di fronte alle sfide della modernità.
Prima lo si farà e prima si riuscirà a demistificare i tanti tribuni che sulla scena politica internazionale a furia di bugie, battute e scorrettezze conquistano i voti degli elettori.
Quali gli strumenti delle elite per riconquistare una battaglia che sembra ormai persa? La cultura e l’impegno. L’impegno verso le paure dei propri elettori da una parte e un cambio di mentalità dall’altra. Troppo a lungo infatti gli intellettuali hanno snobbato le scienze naturali a favore delle discipline dello spirito. E senza assolutamente criticare quest’ultime, il suggerimento di Strenger è quello di avere una mentalità più incline verso l’economia, verso le scienze naturali e verso la storia dell’economia politica.
Oltre che verso la psicanalisi, aggiungiamo noi, con tutto quanto essa può insegnare a quelle elite politiche liberali che da troppo tempo hanno disimparato a parlare al cuore dei propri elettori.
La cultura non è un bene di lusso — afferma Strenger — ma una necessità come il servizio sanitario nazionale. Una cultura capace di spaziare dalle scienze dello spirito a quelle della natura, in grado di uscire dalla torre d’avorio dove i cosmopoliti in crisi si sono rintanati, per imparare di nuovo a parlare al mondo e con il mondo. Una cultura capace di saper affrontare le sfide dei politici populisti, senza per contro facilmente disprezzare i tanti elettori di quest’ultimi. Una cultura che sappia preparare tutti gli intellettuali di buona volontà alle sfide immense del mondo moderno, e che infonda in loro pazienza, umiltà e spirito combattivo.
Carlo Strenger è improvvisamente morto lo scorso ottobre, lasciando una grande amarezza in chi lo conosceva da tempo e in chi, come me, lo ha scoperto da poco. Ci auguriamo che anche questo suo ultimo libro venga tradotto velocemente in italiano.