Le rosse reti di Krušedol
Misteriosa e arcaica. Questa era la Serbia per me prima di innamorarmi di Aleksandra e unirmi a lei in matrimonio — per omaggio alla sposa — con rito ortodosso, nella collegiata dello stesso Paese in cui nacque ed è seppellito Slobodan Milošević.
Ma cosa ne poteva sapere della guerra una fanciulla venuta alla luce nell’autunno dello sfacelo jugoslavo?
Del rito, della banda di ottoni che ci accompagnarono tutta la giornata, degli amici festanti e increduli giunti dall’Italia, dalla Germania e dalla Russia, parlerò un’altra volta.
Oggi il mio ricordo è per quegli scorci vissuti dopo il matrimonio, viaggiando in un Paese pressoché sconosciuto e in bilico tra voglia di futuro e sguardo rivolto a un mistico passato.
La prima tappa fu Krušedol, un monastero colorato e silenzioso immerso nella quiete del Parco Nazionale di Fruška Gora, luogo di resistenza alle persecuzioni del Regno Ottomano.
Mi rimane impressa la porta d’ingresso al luogo sacro, pitturata in colori vivaci e dalle sembianze orientali, un’esplosione di colore prima del raccoglimento sacrale monocromatico della chiesa al centro del luogo santo. Il colore delle sue pareti esterne era tutta una variazione dei toni di crema, lo stesso colore della mia maglietta che poteva indurre a pensare l’avessi indossata con consapevolezza, anziché averla scelta per puro frutto del caso.
L’edificio di culto al suo interno si presentava interamente affrescato, rimanendo illuminato solo da qualche raggio di luce che a fatica si faceva strada tra le feritoie. In sfida alla precisa richiesta dei cartelli affissi sul portone riuscii a scattare qualche immagine del suo interno, ottenendo senza fatica delle rappresentazioni altamente suggestive, aiutato com’ero dal gioco di luci e ombre creato dai raggi fendenti l’oscurità. Ma poi mi ravvidi e cancellai quelle immagini belle ma ottenute in maniera non lecita, come a voler evitare che il modo furbesco con cui le avevo ottenute minassero il patto di fiducia tra me e la mia giovane moglie serba.
Fuori dalla chiesetta i monaci avevano appeso ad asciugare sei larghi sacchi a rete colmi di noci. Forse per il rosso acceso delle loro reti, evidenziato da una vivida luce ottobrina che mi era poco nota vivendo al Nord, per un attimo mi parve di trovarmi catapultato nel pomeriggio di una spiaggia siciliana quando i pescatori tornano a terra.
Passammo la prima notte di luna di miele nella vicina Sremski Karlovci, una perla architettonica poco distante da Novi Sad, la seconda città serba per popolazione. Eravamo nella Voivodina, una regione confinante con l’Ungheria e un tempo confine tra l’impero asburgico e il Regno Ottomano. Una terra tanto piena di popoli che ancora oggi riconosce tra le sue lingue ufficiali oltre al serbo e l’ungherese anche il romeno, lo slovacco e il ruteno.
Prima che la spostassero a Belgrado, Sremski Karlovci era stata la sede della chiesa autocefala serbo-ortodossa, costituendo il centro spirituale della nazione Serba.
Di questo dignitoso passato la cittadina conservava il Palazzo del Patriarcato, una imponente costruzione ottocentesca, che al suo interno riservava non poche sorprese. Quando mai in vita mia avevo avuto infatti la possibilità di ammirare intere pareti tappezzate in pelle di vitello? E dove prima d’allora avevo mai potuto ammirare dipinti raffiguranti dignitari ortodossi vestiti come cardinali della Chiesa Cattolica?
Scoprii infatti che i metropoliti serbi assai poco si curavano del detto secondo cui l’abito non farebbe il monaco. Essi invece, quando dovevano apparire alla corte di Vienna a perorare la propria causa, ben sapendo che i nobili austriaci ignoravano i dettagli e forse anche l’essenza del credo ortodosso, pensarono bene di assumere sembianze comuni a chi era uso frequentare il clero apostolico, al fine di sottolineare l’alto grado di cui godevano nei ranghi della propria Chiesa, pari a quello dei cardinali romani.
Dopo una immersione nel passato religioso serbo, andammo ad assaporare uno dei vini per cui la Voivodina vorrebbe essere famosa. Incontrammo un viticoltore massiccio che mi informò orgoglioso di come, poco prima di noi, a bere presso di lui era passato il capo delle forze armate serbe. E di nuovo in me quella sensazione particolare di trovarmi in una terra al confine tra il passato e il futuro, tra un orgoglio che si ciba di religiosità e mito nazionale e la ricerca di un futuro pensato per chi ancor prima di bere o mangiare posta una foto dei locali sui social media.
Lasciata la Voivodina ci spingemmo poi verso la Serbia Centrale, scoprendo tutta una serie di cittadine di provincia a me prima del tutto sconosciute.
Come Valijevo, anch’essa ospitante una imponente chiesa Ortodossa, ma che soprattutto rimane alla mente per il ruolo centrale assunto dal suo fiume nella pianta urbana.
È impossibile arrivare a Valijevo senza scorgere le verdeggianti rive del Gradac, il fiume più pulito della Serbia. Lungo le sue sponde fioriva la vita. Ristoranti, caffetterie, tavolini, giovani e vecchi allegri e spensierati si godevano la vita in un caldo pomeriggio ottobrino. Incredibile pensare che vent’anni prima qui erano cadute le bombe. Ora, invece, lungo queste strade capita di avvistare fabbriche dai nomi nostrani, come quella dei collant Golden Lady.
Dopo un gelato tra i flaneur locali, ci lasciammo alle spalle il pomeriggio del villaggio per andare nel poco distante quartiere di Tešnjar. Qui infatti si poteva passeggiare lungo una celebre strada simile alla “main street” da cinema western. È una zona celebre tra i cinefili serbi perché qui vennero girati numerosi film del loro patrimonio culturale, dai nomi purtroppo a me del tutto sconosciuti.
E poi via, lungo una strada tortuosa ma non troppo che ci avrebbe portato a Bajina Basta, una specie di Chiesa in Valmalenco all’interno del complesso montuoso di Tara.
Le curve che da Valijevo conducevano la nostra auto a nolo verso la prossima meta avrei tanto voluto percorrerle in moto. Sembravano le gemelle di quel tratto della Liguria che si staglia al centauro proveniente dal Piemonte quando, costeggiando il parco della Beigua, approda per dolci acquisti alle colline di Sassello.
La fortuna volle che giungemmo alle porte di Podrinje, il punto di osservazione che costituisce l’ingresso nella valle della Drina, in tempo per ammirare un tramonto vivido e colmo di poesia.
Con noi lungo questo viaggio di amore e scoperta la continua presenza, ora discreta, ora sfacciata, della morte. Spesso infatti lungo la statale notavo lapidi e tombe di cimiteri senza recinto, collocati pressoché sul ciglio della strada come a suggerire che qui, nei Balcani, la signora con la falce è una presenza costante e accettata senza falsi pudori.
D’altronde la parola serba più conosciuta nel mondo è vampiro, perché in questo lembo di terra si tenne l’unico processo di vampirismo ufficialmente registrato dalle cronache del regno asburgico.
Giunti a Bajina Basta, sul confine con la Bosnia Herzegovina, mi corse un brivido nella schiena quando per decidere dove cenare mi volli affidare a un portale su Internet. Tra le prime proposte mi apparve quella di una pizzeria presso un villaggio non troppo distante. Srebrenica.
Optammo per un ristorante locale. Lo raggiungemmo a piedi percorrendo strade poco illuminate. Era ormai notte, riuscimmo a convincere il gestore a tenere aperto per noi, e sfornarci due ottime trote della Drina. Lo aveva conquistato — come spesso mi accade quando mi trovo all’estero in luoghi più o meno lontani — la mia italianità.
Trascorremmo la cena ascoltando i suoi racconti di pesca, colmi di ricordi per gli amici italiani che non avevano mai smesso di frequentare il suo fiume così ricco di pesci e di storia.
Il giorno dopo piovigginava, e questo rese la gita tra i monti di Tara ancora più suggestiva, se non fosse stato per i cartelli che ci mettevano in guardia dal pericolo orsi.
Nel pomeriggio trovammo rifugio dalla nebbia presso un bizzarro villaggio montano dal nome tedesco: Küstendorf. Un luogo tanto tradizionale quanto fasullo. Esso venne partorito agli inizi degli anni Duemila dalla mente vulcanica del regista Emir Kusturica, per omaggiare tanto la tradizione etnica-nazionale del suo Paese (motivo che gli ha attirato critiche) quanto i maestri del cinema mondiale, immortalati nel nome delle vie, tra cui naturalmente non manca Federico Fellini Street.
Dal poco distante villaggio di Mokra Gora avremmo potuto prendere una antica locomotiva a vapore che ci avrebbe portato in Bosnia. Ma la pioggia aveva bloccato tutto.
Decidemmo di sconfinare in auto, per raggiungere dopo pochi chilometri tra valli grondanti pioggia Visigrad. E qui finalmente poter calcare il ponte più famoso della letteratura balcanica, quello sulla Drina, dall’omonimo romanzo di Ivo Andric.
Ero solo arrivato a metà del mio viaggio in Serbia, ma già mi sentivo a pieno titolo protagonista di un romanzo.