Lezioni israeliane

Alessandro Melazzini
6 min readJun 8, 2021

--

Lo storico isaeliano Yuval Noah Harari riesce nei suoi libri divulgativi a rendere accattivanti temi complessi, senza concedere troppo alla necessaria stringatezza con cui essi debbono venire trattati nell’ambito di una pubblicazione per il grande pubblico.

Ci riesce talmente bene che ormai è una star accademica con impatto globale, in grado di far appassionare numerosi lettori ai grandi temi della storia umana. Perché di questo, e niente di meno, si occupa Harari in bestsellers come Sapiens. Breve storia dell’umanità o Homo Deus. Breve storia del futuro. A parte l’indubbio fascino sulle menti curiose che esercitano argomenti così essenziali, l’abilità dello studioso poggia nel narrarli in maniera avvincente e riuscire sempre a fornire un punto di vista insolito, profondamente demitizzante, scettico nei confronti delle religioni e credenze, dei miti e delle proiezioni della storia umana, senza mai essere cinico o sferzante.

Dopo essersi dedicato al passato e al futuro della storia dell’umanità, con la sua ultima fatica egli rivolge lo sguardo al presente, snocciolando 21 lezioni per il XXI secolo.

Quali le grandi sfide dell’umanità ad oggi? Quale il nostro prossimo futuro? Cosa dobbiamo insegnare ai nostri figli? Sebbene Harari sia consapevole che ognuno di noi ha una propria agenda spesso ben diversa, se non apertamente contrastante con quella dei suoi prossimi, il suo approccio è — non potrebbe essere altrimenti — globale. L’intento, quello di trovare il denominatore comune delle nostre preoccupazioni in quanto razza umana.

E già anche solo il suo sguardo lungimirante costituisce una ventata di aria fresca in un presente che sembra più divisivo che mai, nel quale le strabilianti scoperte della tecnica vengono usate da molti — politici e comuni cittadini — a solo vantaggio del proprio partito, della propria fazione, del proprio ego, col risultato di sollevare muri, e non solo in senso simbolico.

Sembra infatti paradossale, ma proprio ora che l’essere umano si trova sul limitare di un nuovo epocale orizzonte, nel quale le scoperte dell’informatica si uniscono a quelle della biologia per donarci opportunità finora impensabili, si avverte un po’ovunque un forte senso di stanchezza verso l’ardore del pensiero liberale, accusato sia da destra che da sinistra di non essere al passo coi tempi, col risultato che tribuni e dittatori — ovvero la quintessenza di chi è contrario all’evoluzione, alla scoperta, alla curiosità, al progresso — si presentano sul palcoscenico globale con l’arroganza di impartire lezioni di vita al popolo insicuro.

Ed allora ecco che una delle prime lezioni di Harari è proprio dedicata a riflettere su cosa fare dei cocci politici in cui ci stiamo muovendo, dopo che il comunismo è fallito e il liberalismo non sta molto meglio. Lasciare campo aperto a Donald Trump e al suo collega Putin? Naturalmente non è questa l’alternativa che ci potrà condurre proficuamente tra i marosi della modernità. Purtroppo, non avendo la sfera di cristallo, Harari ammette di non sapere esattamente come uscire dall’impasse in cui ci troviamo. E tuttavia, questa la sua lezione, qualsiasi forza politica in grado di condurci pacificamente nei secoli venturi dovrà possedere la consapevolezza dei sommovimenti in corso, ovvero la nascita e sviluppo dell’intelligenza artificiale, l’ingegneria biologica e la capacità di analisi e immagazzinamento dei dati dei computer sempre più performanti. Dovrà capire che tutto questo è qui per rimanervi, e che uno sguardo all’indietro verso i bei tempi che furono è inutile, se non deleterio. Come già Heidegger prima di lui aveva capito, quella tecnologica è la vera rivoluzione che sta trasformando fin nella sua essenza l’essere umano. Ed è questa la rivoluzione a cui i politici del prossimo futuro dovranno dare risposta.

A partire dal fatto che con l’avvento dei computer sempre più pensanti si sta avvicinando a grandi passi il momento in cui milioni di persone verranno espulse dal mercato del lavoro, senza possibilità di sostituzione.

Se nell’Ottocento quella della macchina mangia-lavoro era una viscerale paura alla quale i luddisti davano una risposta tanto semplice quanto energica — prendere a martellate le macchine per distruggerle — l’impatto dell’intelligenza artificale nei prossimi decenni sarà così devastante che per davvero intere categorie di impiego vedranno svanire la loro stessa ragion d’essere. E non parliamo solo di lavori prevalentemente manuali come i tassisti e guidatori di autotrasporti, che in capo a qualche decennio potrebbero venire spazzati via dai camion a guida autonoma, ma anche di tutta una serie di servizi più complessi, pensiamo all’intermediazione immobiliare o assicurativa, che sempre meno avranno bisogno di una persona in carne ed ossa per essere svolte proficuamente.

Cosa sarà di loro? Cosa sarà di noi? La soluzione al dilemma in cui Harari ci conduce è simile a quella già espressa dal suo collega olandese Rutger Bregman che, nel volume Utopia per Realisti, suggerisce l’introduzione massiccia di un reddito di cittadinanza capace concretamente di permettere ai milioni futuri disoccupati di trasformarsi in attivi consumatori, senza nostalgia ideologica o senso di colpa morale.

Anche Harari evoca un prossimo futuro in cui a ogni cittadino siano garantiti dei “servizi umani di base”, grazie ai quali possa vivere un’esistenza dedicata ad altro rispetto a chi tra di loro vorrà percorrere una carriera lavorativa. Una esistenza dedicata alle sfide mentali o corporali, alle competizioni sportive o alla religione, per esempio. Una simile rivoluzionaria prospettiva lo storico israeliano la osserva a casa propria tra gli ebrei ultraortodossi che, per motivi religiosi, sono esentati dal lavoro e passano la loro esistenza a studiare i testi sacri dell’ebraismo. Un tipo di vita intesa ad oggi da molti loro connazionali come parassitaria potrebbe, nell’ambito di mezzo secolo, diventare molto più comune e sensata rispetto a chi si sforza di competere con degli algoritmi in grado di svolgere operazioni complesse molto meglio degli umani, e in tempi infinitamente più veloci.

In fondo, si chiede Harari, e noi con lui, chi lo ha detto che guadagnarsi il pane col sudore della propria fronte sia l’unico tipo di esistenza possibile, e invece dedicarsi alle arti liberali sia un passatempo per gli scansafatiche? Ma se anche un simile futuro si avverrà, questo non significherà che saremo giunti alla fine della Storia, né che i pericoli per l’essere umano saranno colmati quando tutti studieranno o faranno sport anziché rimboccarsi le maniche e faticare. Come già i Romani ebbero modo di esperire, quando i cittadini dismettono i panni di guerra, vi è sempre qualche barbaro in attesa di saccheggiare la pacifica e colta civiltà conquistata con fatica. E il barbaro del futuro prossimo potrebbe essere molto meno selvaggio e molto più potente dei Traci che sconfissero l’Impero Romano. Così come gli algoritmi disbrigheranno per noi ogni tipo di incombenza fastidiosa, essi potrebbero infatti esautorarci da sempre più scelte, finendo per affogare la nostra libertà in una soffice ma implacabile dittatura digitale.

Ecco allora che varie lezioni del volume di Harari sono dedicate all’approfondire il significato profondo della rivoluzione informatica in corso, perché se l’informazione è potere, sempre più centrale per il nostro futuro sarà capire chi detiene la conoscenza, e come la impiegherà.

Se il lettore, sconfortato di fronte a scenari intrisi di dittatura informatica e nazionalismo ruggente, pensasse di trovare una fonte di salvezza futura nelle religioni passate, Harari non potrà che deluderlo. Una semplice analisi dei fatti dimostra che spesso il potere religioso è servo del nazionalismo, l’ortodossia cristiana russa serve alle mire di Putin, quella islamica corre in soccorso delle teocrazie arabe, l’ortodossia ebraica non sempre è pura ispiratrice di pace, il buddismo ha fedeli non sempre pingui e emansueti, e cosi via ricordando che le religioni sono fatte di uomini, e da essi prendono tutti i loro difetti. Con questo Harari è lungi dal criticare frontalmente chi ha una fede nell’aldilà, e tuttavia è lucido al punto dal mostrare come — a seconda delle idee che i fedeli attribuiscono al proprio Dio — una religione può essere tanto uno strumento di pace quanto però anche una terribile minaccia alla libertà.

Di fronte a questi e molti altri argomenti in grado di lasciare insonne chiunque guardi al futuro con ragionevole preoccupazione, la lezione dello storico israeliano è di una semplicità cartesiana.

Pur senza volere fornire una spiegazione alla complessità del mondo presente e futuro, e ben sapendo che un professore deve soprattutto evidenziare e e chiarificare i problemi ma non è tenuto a risolverli, il saggio consiglio dello scrittore tra le righe delle sue lezioni è quello di privilegiare il dubbio di fronte alla presunzione di infallibilità, non smettere di interrogarsi sulle proprie azioni e credenze, credere nel dialogo anziché nel monologo.

Insomma, comportarsi da uomini maturi, anziché da adolescenti rissosi. Una lezione utile tanto per noi, quanto per i nostri figli, così come per tutto il futuro dell’umanità.

--

--

Alessandro Melazzini
Alessandro Melazzini

No responses yet