Un’azienda sregolata. Il caso Netflix
Il mondo è cambiato rapidamente in questi anni. Se nel 2010 probabilmente nessuno in Italia conosceva Netflix, oggi le abitudini televisive di milioni di telespettatori sono orientate verso questo gigante dell’intrattenimento che, insieme ai suoi alleati/concorrenti nell’ambito dello streaming, ha sconvolto l’industria televisiva tradizionale e quella cinematografica. Tanto in termini di narrazione — aumentando l’ondata di fiction di alta qualità, statunitense e non, che dalla fine degli anni Novanta ha rivoluzionato la serialità televisiva — quanto soprattutto in termini di consumo, perché ormai trovare uno spettatore sotto i 50 anni che accende la televisione solamente per guardare trasmissioni lineari dei canali tradizionali è raro come scovare un italiano privo di telefono cellulare. Per non parlare del colpo dato alla visione di film nelle sale cinematografiche, messo a dura prova dall’offerta comoda e vasta dei portali di video on demand. Naturalmente i cinefili incalliti continuano a preferire la visione al buio di fronte al grande schermo, ma in tempi di home theater con schermi di dimensioni consistenti, la grande massa sembra orientarsi sempre più verso il divano rispetto alla poltrona.
Come se non bastasse, la pandemia tuttora in corso ha dato un’accelerata a questi processi tecnologici e sociali, regalando a Netflix e compagni un grosso numero di nuovi abbonati e quotazioni in borsa di tutto rispetto.
Non pago di tanto successo, anche perché consapevole che nel mondo dell’informatica tutto può cambiare molto rapidamente, Reed Hastings, ingegnere e imprenditore a capo di Netflix, ha deciso quest’anno di raccogliere in un volume la sua filosofia aziendale.
Perché la cultura interna del rivoluzionario colosso dell’intrattenimento casalingo, apprendiamo dalle parole del suo fondatore, è in netta contrapposizione rispetto all’approccio felpato e misterioso con cui altre aziende gestiscono i propri processi interni. Per non andare lontano dalla California si pensi alla Apple, che se a parole magnifica la comunicazione e l’apertura verso il mondo, nei fatti ha avuto successo creando un ecosistema informatico chiuso e lo ha fatto coltivando una cultura aziendale ossessivamente attenta a schermarsi dal mondo esterno.
Ne è uscito un libro scritto a quattro mani con Erin Meyer, autrice e studiosa di come le differenze interculturali influenzino il mondo delle grandi imprese multinazionali.
Immergersi nella lettura di “L’unica regola è che non ci sono regole” è avere la comprova di quanto avesse visto lungo Schumpeter, storico dell’economia e dell’innovazione, quando parlava del capitalismo come di una distruzione creativa. Certo l’analisi di Schumpeter era teorica e a livello macroeconomico, ma le pagine di Hastings trasudano di quello spirito liberale e capitalista volto a trarre profitto dal meglio del lavoro proprio e di quello degli altri, senza per questo cadere nella caricatura da padrone del vapore, quantomeno se non lo si vuole leggere e giudicare con la diffidenza di chi ha in astio ogni storia di successo proveniente dal mondo aziendale statunitense.
Nel raccontare apertamente come la propria creazione è governata, Hastings sembra comportarsi come una via di mezzo tra l’allenatore di una squadra sportiva professionista e un saggio orientale pieno di esperienza verso i suoi consimili.
Da una parte un’estrema importanza verso la prestazione e l’eccellenza, in questo facendosi portatore pieno e sano della cultura concorrenziale e aggressiva della Silicon Valley, dove peraltro Netflix ha un ufficio. Perché pagare 10 impiegati mediocri, quando se ne può strapagare uno eccellente? Scevro di qualsiasi timore o paura di essere considerato brutale, Hastings mette subito in chiaro che nella sua azienda vige “il principio della Rockstar”. Ovvero si tollera solamente l’eccellenza, e mentre i talenti vengono ricoperti di denaro come e più di quanto le aziende concorrenti sarebbero disposte a pagare, tanto da far cadere nel dimenticatoio il vetusto concetto di bonus di fine anno, non vi è nessuna remora a indicare la porta a chi non soddisfa il grado eccelso di bravura che ci si aspetta abbiano tutti i dipendenti Netflix. E questa è forse la parte del libro più straniante per noi spiriti europei portati al compromesso, e consapevoli che una cosa è guidare un piccolo mostro tecnologico in California e un’altra un’azienda tradizionale nel Vecchio Continente. Dall’altra parte, varcata la soglia dei pochi ma buoni, all’impiegato di Netflix sembra aprirsi di fronte una specie di Paradiso aziendale. Ferie? Falle quanto e quando vuoi. Rimborsi spese? Dimmi cosa ti devo e ti credo sulla parola. Pensi che il tuo capo, o anche il capo del tuo capo, o persino Hasting stesso nell’ultimo meeting abbia detto una sonora stupidata? Diglielo in faccia, e aspettati che questi ti ringrazierà per come hai contribuito, con la tua critica costruttiva, a evitare che l’azienda compia passi sbagliati. Perché la cultura del dissenso a Netflix non solo è coltivata, ma anche incoraggiata e praticata incessantemente, da tutti e verso tutti.
Pensi che un documentario visto a un festival abbia le caratteristiche per diventare un successo planetario se diffuso in streaming? Paga una cifra assurda e spiazza i concorrenti (ma solo se sei davvero convinto che siano soldi ben spesi).
È stato il caso dell’Ikarus di Bryan Fogel, un imprevedibile e coinvolgente documentario sul dooping nel ciclismo e sul coinvolgimento del capo del team russo di anti-dopaggio nel …. drogare i propri atleti.
Netflix si è aggiudicato l’opera per una cifra tra i 4 e i 5 milioni di dollari, cospicua per un documentario e almeno il doppio di quello che probabilmente avrebbe pagato Amazon Video. Al momento di concludere l’accordo, il responsabile aziendale dell’acquisto non ha dovuto chiedere il permesso a nessuno per compiere una scelta azzardata, che tuttavia poi si è rivelata vincente.
A un lettore italiano smaliziato tutta questa fiducia non può che essere sospetta, o quantomeno mal riposta, se si pensa alle derive che, in un contesto al quale siamo abituati, potrebbe avere sugli impiegati la mancanza istituzionale di regole e paletti.
L’antidoto applicato da Hastings è semplice: se da una parta dobbiamo promuovere una cultura della schiettezza, dall’altra nessuno si deve comportare come un cretino, bensì agire sempre seguendo una sola regola: quello che faccio è nell’interesse dell’azienda, o contro di esso? Devo per forza prendere un volo in business class, se atterro il pomeriggio, sto in un hotel confortevole, e ho un meeting il giorno dopo? Probabilmente no. Se invece parto preso la mattina e a mezzogiorno mi tocca una presentazione importante, è probabile che il costo maggiore nella logistica sia compensato da condizioni migliori per farmi brillare di fronte ai miei interlocutori.
Insomma, sebbene presso Netflix probabilmente non si consulti la Bibbia, tutta la filosofia aziendale si basa sul detto evangelico di essere sempre candidi come colombe, ma prudenti come serpenti.
Perché naturalmente è capitato che alcuni, di fronte alla grande libertà concessa dall’azienda, si siano messi a sputare veleno contro altri colleghi o se ne siano andati all’improvviso ai Caraibi nel mezzo di un progetto importante. Sono comportamenti, ammette Hastings, capitati alcune volte, ma capitati soprattutto nei primi anni in cui Netflix sperimentava il proprio codice interno di libertà pressoché totale.
E, certo, saltuariamente accade ancora che ci si approfitti di questa assenza di regole rigide per arrecare un danno all’azienda. Ma è il prezzo che si deve pagare per ispirarsi alla libertà, anziché al controllo, ed è un prezzo che Netfix paga volentieri se questo alla fine permette di sviluppare una atmosfera generale di collaboratività e creatività, che peraltro elimina tutte le spese e i processi di controllo di cui si devono dotare le aziende tradizionali.
La metafora suggerita dall’autore per capire il dinamico rapporto di confidenza, responsabilità e libertà generato dalla politica aziendale di Netflix è quello di un concerto Jazz, nel quale dei professionisti di alto livello sono capaci di suonare in gruppo sapendo al contempo elaborare assoli non programmati ma che si inseriscono perfettamente nell’armonia complessiva.
L’ammirevole afflato “libertario” delle politiche aziendali di Hastings è tale che egli per inseguire l’ideale di massima trasparenza interna propugnato incessantemente ha scelto di non avere un ufficio personale ai piani alti e presidiato da una batteria di segretarie, bensì di collocarsi ogni giorno al primo tavolo che trova quando arriva sul lavoro.
Ma qui noi ci fermiamo, perché sebbene incantati dalla mancanza di convenzionalità di questo miliardario temerario, non possiamo che rivolgere un pensiero al sottoposto che per un giorno si ritrova all’improvviso a dover lavorare gomito a gomito con il megacapo, neanche fossimo in uno di quei pungenti e malinconici film di Fantozzi.